UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE: LAUREA HONORIS CAUSA
A SERGIO MATTARELLA E BORUT PAHOR
(galleria fotografica a fine articolo)
In occasione del centenario dalla sua fondazione, l’Università di Trieste ha conferito oggi la laurea honoris causa in Giurisprudenza al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Borut Pahor, già Presidente della Repubblica di Slovenia. “L’Ateneo riconosce il contributo straordinario che entrambi i Presidenti hanno dato alla società attraverso il loro impegno politico e la difesa dei valori democratici” sottolinea il rettore Roberto Di Lenarda. “In un momento storico come quello attuale, segnato dagli scenari di guerra, è fondamentale guardare a modelli esemplari di promozione della pace e cooperazione tra i popoli”.
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Trieste, 12 aprile 2024 – L’Università di Trieste ha conferito oggi la Laurea Magistrale honoris causa in Giurisprudenza al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Borut Pahor, già Presidente della Repubblica di Slovenia, due personalità che stanno contribuendo a scrivere la storia della frontiera adriatica.
A motivare il doppio conferimento è, infatti, la politica di riconciliazione perseguita dai due Presidenti che ha reso l’area del confine orientale, segnata dalle ferite della storia del Novecento, un esempio di collaborazione tra popoli legati dalla comune appartenenza all’Unione Europea.
Questa la motivazione: “Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno saputo coraggiosamente ripudiare la prospettiva angusta dell’egoismo nazionalistico, per perseguire invece una politica di riconciliazione, retta sulla creazione e sul consolidamento di spazi e di simboli dedicati alla memoria collettiva, quale fondamento di autentica pace tra i popoli. Due statisti che hanno interpretato l’amor di patria in una dimensione europea alta, così contribuendo a trasformare la frontiera adriatica, da territorio di aspro conflitto etnico e culturale, ad area di dialogo, di cooperazione e di amicizia, nella comune coscienza dei diritti umani e nella luce delle libertà democratiche”.
Il testo della motivazione è stato letto in italiano dal prof. Gian Paolo Dolso, Direttore di IUSLIT, il Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione di UniTS che ha proposto il doppio conferimento della Laurea ad Honorem. La versione in sloveno è stata invece affidata alla professoressa Tereza Pertot.
I professori Davide Rossi e Fabio Spitaleri hanno dato lettura delle due laudationes.
“Compito del nostro Ateneo è costruire ponti e non muri, contribuire concretamente alla crescita sociale, culturale ed etica dei nostri giovani”, spiega Roberto Di Lenarda, rettore dell’Università di Trieste. “In un momento storico come quello attuale, segnato da scenari di guerra, l’Università apre le sue porte, include, protegge e sostiene soprattutto i più deboli, ma deve essere rispettata nella sua autonomia di collaborazione per produrre scienza e sviluppare cultura, umana e sociale”.
“La scienza si produce facendo ricerca, in cooperazione anche competitiva con le altre Università e gli Enti di ricerca con cui progredire insieme e supportare le menti e le anime più avanzate anche in società che soffrono”, prosegue il rettore, invitando a gestire con equilibrio e razionalità il clima di tensione che agita le Università italiane.
La cerimonia ha avuto inizio alle ore 11.00 in Aula Magna, alla presenza del Magnifico rettore, della comunità accademica, delle autorità civili, militari, diplomatiche, religiose e degli studenti.
Inserita nel più ampio contesto dell’allargamento dell’Unione europea ai Balcani occidentali e dell’azione politica e diplomatica condotta dai due Capi di Stato e dai loro predecessori Giorgio Napolitano e Danilo Turk, la celebrazione odierna conferma il ruolo dell’Università di Trieste come luogo di confronto e dialogo e costituisce una nuova occasione di incontro tra i due Presidenti, a dimostrazione della solidità di un rapporto proseguito anche dopo la conclusione del mandato di Pahor.
Negli anni sono state numerose, infatti, le iniziative che hanno visto protagonisti Mattarella e Pahor, quali la cerimonia “L’Europa luogo di superamento dei conflitti” nel centenario dell’unione di Gorizia all’Italia il 26 ottobre 2016 e l’incontro del 21 ottobre 2021 volto a celebrare la designazione congiunta di Gorizia e Nova Gorica “Capitale europea della Cultura 2025”, un riconoscimento destinato ad accrescere il senso di unione delle due città, fino a trent’anni fa divise da un filo spinato.
Da ricordare come momento fondamentale della nuova stagione di relazioni tra Italia e Slovenia, modello di collaborazione per il continente europeo, anche il bilaterale a Trieste il 13 luglio 2020, con l’omaggio dei Presidenti ai luoghi simbolo delle tragedie dei totalitarismi.
Non è la prima volta che l’Università di Trieste conferisce ad un Presidente della Repubblica una laurea ad honorem: si ricordano Luigi Einaudi il 4 novembre 1954, in occasione del ritorno di Trieste sotto la sovranità italiana, e Antonio Segni nel 1963, alla soglia dell’istituzione e dell’avvio della Regione a statuto speciale.
La cerimonia è stata arricchita dall’esecuzione degli inni italiano, sloveno ed europeo a cura del Coro e Orchestra dell’Università degli Studi di Trieste, diretto da Riccardo Cossi. Hanno affiancato il Coro dell’ateneo alcuni componenti del Coro Vikra.
Al termine della cerimonia è stato anche eseguito l’inno del Centenario dell’ateneo “Sorprendi la sorte”, con testo di Marcela Serli.
Discorso di benvenuto del Rettore Roberto Di Lenarda
Autorità, ospiti, colleghe e colleghi, care studentesse e cari studenti,
per l’Università di Trieste, nel Suo Centenario, è un onore e una grande emozione darVi il benvenuto nella solenne occasione del conferimento delle lauree honoris causa a due personalità che hanno contribuito a scrivere la storia di questa terra: il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, cui vanno il nostro più profondo e deferente rispetto, riconoscenza e affetto e Borut Pahor, già Presidente, per un decennio, della Repubblica di Slovenia, al quale estendiamo la nostra sincera gratitudine per la sua preziosa presenza.
L’Università di Trieste è orgogliosa di poter riconoscere la visione, il coraggio e il contributo straordinario che entrambi i Presidenti hanno dato alla società attraverso il loro impegno politico, la difesa dei valori democratici, la promozione della pace e della cooperazione tra i popoli.
Queste lauree honoris causa testimoniano il profondo legame tra l’Università di Trieste, l’Italia e la Slovenia. Questi Paesi condividono una storia comune e una visione di futuro basata sulla solidarietà, la giustizia e la pace nell’ambito della comune casa europea che tutti siamo chiamati a rendere più forte e più viva.
Ma queste lauree contribuiscono a sottolineare anche il ruolo che l’Università di Trieste ha svolto nei suoi primi cento anni di storia, svolge tuttora e svolgerà in futuro, con la serena consapevolezza che il suo compito è quello di costruire ponti e non muri, aprire prospettive e non chiudere spiragli, contribuire concretamente alla crescita sociale, culturale ed etica dei nostri giovani.
Tutto questo senza cadere nell’ideologia e senza esserne usata.
Il percorso che ci ha portato fino a qui, almeno in parte, è collegato alla storia più che centenaria dell’edificio già Narodni Dom e della legge del 2001 che ne prevedeva il ritorno alla comunità slovena. Come ben noto, dopo quasi 20 anni di sostanziale stallo, il percorso ha subito una significativa accelerazione, in primis per la risoluta azione dei Presidenti, ma anche, e lo dico con orgoglio, per la capacità della nostra comunità di cogliere un’occasione storica, pur non senza sofferenze, interne ed esterne.
Ciò ha creato le condizioni per la memorabile giornata del 13 luglio 2020 e per la altrettanto straordinaria presenza del Presidente Mattarella il 28 marzo 2022 all’inaugurazione del 98° anno accademico della nostra Università, con il richiamo al “garbatamente reiterato invito” che rimane impresso, con profonda gratitudine, nei nostri cuori e nelle nostre menti.
Ma come in quei giorni era da poco iniziata l’invasione russa dell’Ucraina, purtroppo tutt’ora drammaticamente in corso, oggi siamo di fronte a nuove guerre, altrettanto tragiche.
Credo doveroso ribadire come l’Università abbia la responsabilità di sostenere la fine immediata del massacro nella striscia di Gaza, ma non meno di condannare l’ignobile attacco di Hamas del 7 ottobre scorso.
Compito dell’Università, che porteremo avanti con determinazione, è permettere a tutti di esprimere in libertà le proprie posizioni, ma non permettere a nessuno di impedire ad altri di parlare.
Tutti devono rispettare le regole e tutti devono essere rispettati.
L’Università è aperta a tutti, è inclusiva, protegge e sostiene soprattutto i più deboli, ma deve essere rispettata nella sua autonomia di collaborazione per produrre scienza e sviluppare cultura, umana e sociale. La scienza si produce facendo ricerca, in cooperazione anche competitiva con le altre Università e gli Enti di ricerca con cui progredire insieme e supportare le menti e le anime più avanzate anche in società che soffrono.
L’Università, quindi, riconosce l’unica sovranità del metodo scientifico, dello studio, della conoscenza. Anche in virtù del fatto che essa stessa è incubatore del futuro perché la frequentano, crescono e vi maturano i protagonisti del domani: le nuove generazioni, che contribuiscono, in un circolo auspicabilmente virtuoso, a modellarla e renderla moderna e al passo con i tempi e le esigenze della società.
Proprio gli scenari di guerra ci avvertono che un crescendo lineare di progresso scientifico e tecnologico non si traduce automaticamente in un progresso della democrazia, della convivenza pacifica e della giustizia sociale.
È necessario quindi creare le condizioni che rendano lo sviluppo sostenibile esistenzialmente e rispettoso dell’umano. E l’Università deve svolgere un ruolo attivo nella capacità di restituire alla società un valore aggiunto in termini di riflessione sul senso delle cose, di capacità di analisi critica, di autonomia di pensiero, in termini di una capacità critica che sappia ricongiungersi costantemente al senso del bene e del male.
Anche in questo senso, auspico quindi che i Presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor continuino a essere guide illuminate per i nostri Paesi e per l’Europa nel suo insieme, ispirando le nuove generazioni a far germogliare la conoscenza, la libertà, la democrazia e i diritti umani.
Laudatio prof. Davide Rossi
Magnifico Rettore,
Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente Pahor,
Colleghe e Colleghi, personale tecnico-amministrativo,
Comunità Studentesca,
Autorità civili, militari, diplomatiche e religiose,
Gentili signore e signori,
La guerra tutti l’abbiamo provata, e anche la Liberazione che si portò dietro altri lutti e altre miserie». Con queste grevi parole, nel 1960 un giovane ed allora sconosciuto Fulvio Tomizza apre uno dei suoi scritti più densi e che meglio dipinge un mondo realmente straziato dai rancori, dai torti e dalle vendette sanguinose che la Venezia Giulia patì a cavallo della conclusione del secondo conflitto mondiale. Il romanzo è Materada, pubblicato a pochi anni dal ritorno di Trieste all’Italia: il protagonista è Francesco, italiano con un cognome slavo, bilingue, partigiano, costretto ad abbandonare la propria terra d’origine, tra l’angoscia per quanto si lascia alle spalle e le aspettative per un futuro incerto. L’autore aveva vissuto in prima persona quelle terribili esperienze e rifletteva, attraverso le vicende della famiglia Kozlovic, la propria esperienza personale, in un avvicendarsi di speranze, delusioni e rassegnazione. Non a caso anche Tomizza fu insignito della laurea honoris causa da questo Ateneo, per aver saputo tracciare un significativo percorso di riappropriazione del vissuto tragico di questi territori.
Claudio Magris dichiarò che con quell’opera narrativa si era arricchita di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità. Materada è un piccolo borgo vicino a Umago, in Istria, che può ben rappresentare un “non-luogo”, quale punto d’incontro tra tante etnie e nazionalità, nei secoli assoggettate prima all’Impero romano, quindi alla Serenissima Repubblica di Venezia, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia, alla Jugoslavia, alla Slovenia e alla Croazia. O del nessun luogo, utilizzando questa volta la fortunata espressione di Jan Morris, con cui l’autrice evoca il suo intenso rapporto con Trieste, città simbolo di splendore e declino, descritta come fuori dal tempo, in cui ciascuno è libero di vivere senza costrizioni, di scoprire la propria identità più autentica, la meta ideale per spiriti erranti, solitari o rinnegati, per tutti coloro che non trovano un proprio luogo su nessuna mappa. In questa giornata non possiamo non rammentare come quest’anno ricorrano anche gli ottant’anni dalla sottoscrizione a Londra, il 5 ottobre 1954, del Memorandum d’intesa fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Jugoslavia, preludio dell’attracco, qualche settimana dopo, dell’Amerigo Vespucci nel porto cittadino, con una Piazza Unità, colma e festante, che celebrava l’effettivo passaggio di Trieste alla sovranità italiana.
Le complesse vicende di cui questi martoriati territori sono stati protagonisti durante il secolo breve vedono sgretolare la propria simmetria già nel 1866 con la decisione di Francesco Giuseppe di disequilibrare gli assetti tra le popolazioni italiane, germaniche, slave presenti nel suo immenso Impero, per poi esplodere nel Novecento, quando il nazionalismo, le ideologie politiche totalitarie, il radicalismo religioso crearono un contesto esplosivo, che rispecchiava – e in alcuni momenti addirittura anticipava – il contesto internazionale; scelte calate dall’alto riducevano al silenzio, costringevano a tacere su terribili misfatti con cui si stava calpestando la dignità e l’esistenza delle persone.
Il prezzo del carattere punitivo fu pagato proprio da quanti persero la vita o dovettero lasciare le proprie abitazioni in nome di totalitarismi politici che opprimevano le libertà dei singoli, colpivano l’identità personale imponendo la modifica del cognome, violavano ogni diritto delle minoranze, trasformavano in pubblico ciò che prima era privato, dissacravano Chiese e credenze religiose, costringevano a parlare lingue diverse, nazionalizzavano in modo arbitrario beni e proprietà.
Nel percorso di riappropriazione di questa storia è innegabile come la caduta del Muro di Berlino abbia avuto un ruolo nevralgico, consentendo di superare letture ideologizzate oppure politicamente parziali, permettendo di far emergere ricostruzioni, fatti, personaggi, racconti sconosciuti. Si pensi solamente alle poliformi chiavi interpretative che stanno di recente emergendo nel momento in cui affiora come nelle foibe balcaniche siano state inghiottite oltre 100.000 persone, a fronte di circa 10.000 morti italiani.
Anche grazie al Vostro apporto e alla Vostra sensibilità, il prossimo anno si celebreranno Nova Gorica e Gorizia, insieme, quali Capitali Europee della Cultura: un riconoscimento di straordinaria rilevanza e certamente destinato a cementificare la storia della frontiera adriatica, in un felice connubio tra il desiderio di recuperare le proprie radici e l’anelito a guardare con ottimismo al futuro. Come è noto, le due città, fino ad una trentina di anni fa, erano come Berlino Est e Berlino Ovest, plasticamente divise da un filo spinato posto a confine cittadino, che aveva spezzato la promiscuità di un territorio, le vite delle famiglie, i ricordi individuali e collettivi, coprendo l’avvenire di una coltre di nebbia. L’affascinante stazione della linea ferroviaria, inaugurata nel 1906 dall’Arciduca Francesco Ferdinando per collegare Trieste all’Europa centrale, attualmente si trova sul versante sloveno di un’area che fu letteralmente divisa in due dal Trattato di Parigi del 1947, a segnare la separazione di due mondi tra loro contrapposti, l’est e l’ovest, l’Italia e l’ex Jugoslavia. Dove ora ci sono delle fioriere e si può camminare con un piede in uno Stato e uno in un altro, per tutto il periodo della guerra fredda quel limes ha raffigurato il luogo simbolo della distanza ideologica. Dal 2007 quel muro è stato sostituito da una Piazza che unisce i due comuni, denominata “Transalpina” dall’Italia e “dell’Europa” dalla Slovenia. Non a caso si ricorre a due denominazioni differenti e non ad una unitaria, in quanto non può esistere una ricostruzione unica e comune a tutti, ma – citando il Presidente Mattarella – dobbiamo puntare ad «una memoria condivisa, [che] vuol dire accettare la responsabilità, ripercorrere la storia affrontando con rispetto, con approccio rigoroso e scientifico le vicende dolorose patite dalle popolazioni di queste terre».
La memoria è infatti di per sé divisa e divisiva, e non a torto Benedetto Croce ci rammenta che tanto la dottrina quanto la politica raramente sono attori innocenti, in quanto tendono a ricostruire il passato attraverso le logiche interpretative della contemporaneità.
Oggi l’intento è quello di cercare di ricucire quei fili spezzati laddove, nel torno di un secolo, si sono succedute sovranità e ordinamenti, dall’Impero Austro-Ungarico, al Regno d’Italia, al fascismo di frontiera, dall’amministrazione militare nazista al passaggio degli slavi titini, in un terribile connubio di nazionalismi e contrapposte ideologie.
Quello di “giustizia di transizione” è un concetto interdisciplinare e che evade da una accezione meramente giuridica, riferendosi piuttosto a quei meccanismi che regolano i processi di passaggio da un assetto istituzionale autoritario ad uno democratico, rimarcando come al male prodotto dalla Storia si possa rimediare con risarcimenti e compensazioni di natura non soltanto economica, ma pure morale, sociale, religiosa e culturale. La cultura, dunque, può e deve diventare uno strumento di giustizia transizionale, anzitutto nella valorizzazione delle prospettive storiche che rispecchiano le vicissitudini di un popolo, lo scandirsi di corsi e ricorsi, e che esprime il suo ossequio per il trascorrere, lento e graduale, del tempo, attraverso il recupero dei toponimi, dei palazzi, delle tradizioni. Sono questi elementi fondanti una comunità, che necessitano di quel rispetto che, invece, è stato violentemente negato ad ogni cambio di regime politico o di sovranità, nel tentativo di cancellare il passato, proprio in quanto legato ad appartenenze diverse.
Di contro, il valore della frontiera adriatica è proprio frutto della «sommatoria di segni materiali che si sono sovrapposti, selezionati e spesso elisi nel corso della Storia, e che nel loro complesso sono espressione della cultura, delle pulsioni, delle mentalità dei suoi abitanti, delle strutture economiche e politiche che hanno espresso». Il confine diviene un racconto dell’io, di ciò che siamo stati prima di varcarlo e di cosa abbiamo paura di perdere, abbandonare, dimenticare. Il confine viene percepito come forma di sopravvivenza, forse l’unica, della nostra identità. Eppure, in queste terre sperimentiamo uno straordinario spazio per elaborare le plurime presenze dell’“altro”, presenze che contribuiscono a tratteggiare la frontiera come una linea densa, ricca di esperienze, anche tragiche e complesse, ma capace di essere il crocevia di caleidoscopiche dimensioni.
Altri Presidenti della Repubblica sono già stati insigniti dall’Ateneo tergestino di una laurea ad honorem: si tratta di Luigi Einaudi, in una data simbolica per questa città, il 4 novembre 1954, quando Trieste – come abbiamo prima rammentato – veniva riannessa all’Italia; e di Antonio Segni nel 1963, in limine all’istituzione e all’avvio della Regione a statuto speciale.
Il significato della giornata odierna si innerva in questo percorso di ricucitura e di ricostruzione di un tessuto connettivo sociale e culturale, rappresentato plasticamente attraverso le vostre mani congiunte davanti ai luoghi simbolo delle tragedie del Novecento. In quell’occasione, il Presidente Mattarella ha invitato a «compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite da una parte e dall’altra l’unico oggetto dei nostri pensieri, coltivando i sentimenti di rancore, oppure al contrario farne patrimonio comune nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione e condivisione del futuro».
Una strada che è stata tracciata anche dal Parlamento Europeo, quando nel 2019 è stata adottata una risoluzione sull’Importanza della memoria per il futuro dell’Europa, in cui si equiparano il nazismo e lo stalinismo: non è il contenuto o il colore dell’ideologia, quanto la sua funzione oppressiva, di integrazione attraverso il terrore e di occupazione ipertrofica dello spazio pubblico.
Così come, novecento anni or sono, giovani da tutto il Continente si riversavano a Bologna per il gusto dell’apprendere, formando una comunità coesa di studenti che sapeva guardare oltre le differenze di provenienza, oggi l’Università è il luogo nevralgico di formazione della cultura, di ricerca e di stimolo per le nuove generazioni, nel quale e attraverso il quale abbattere confini e distanze, nel tentativo di creare, nel lungo periodo, un dialogo tra le diversità e favorire l’educazione ai valori su cui si fonda la stessa Unione Europa, promuovendo il rispetto dei principi della democrazia e le regole dello Stato di diritto, la tutela dei diritti dell’uomo e delle minoranze.
Laudatio prof. Fabio Spitaleri
Magnifico Rettore,
Signor Presidente Pahor,
Signor Presidente Mattarella,
Colleghe e Colleghi, Studentesse e Studenti, componenti del personale tecnico-amministrativo,
Autorità civili, militari e religiose,
Ospiti tutti,
nella cerimonia di oggi onoriamo, con il conferimento della Laurea honoris causa in Giurisprudenza, due protagonisti eccellenti di una nuova stagione delle relazioni tra Italia e Slovenia.
Una stagione che è stata caratterizzata da numerosi e profondi gesti di amicizia, avvenuti nel corso di quasi un decennio, e che ha trovato il suo punto più alto, il 13 luglio 2020, nei momenti di raccoglimento dei nostri Onorati a Basovizza, mano nella mano, davanti alla Foiba e davanti al monumento ai caduti Sloveni, nonché nella firma del protocollo di restituzione del Narodni Dom alla minoranza linguistica slovena in Italia.
Le immagini di quella giornata fanno parte della memoria collettiva dei cittadini europei e costituiscono un simbolo, altissimo e potentissimo, del processo di pacificazione del nostro continente. Quel giorno, da Trieste, da questo crocevia d’Europa dove confluiscono tre civiltà, la latina, la slava e la germanica, è partito un forte segnale di dialogo e di unione.
Il nuovo corso delle relazioni tra Italia e Slovenia ha condotto a risultati importanti: non soltanto ha confermato il definitivo superamento delle incomprensioni tra due popoli, in passato divisi e oggi uniti dalla comune appartenenza all’Unione europea; ma ha suggellato anche la creazione di una memoria condivisa.
Il concetto di memoria condivisa non è di facile intuizione e merita di essere approfondito, anche dopo la chiusura dell’odierna cerimonia.
Memoria condivisa, in effetti, non vuol dire memoria ufficiale, accettabile per tutti, che intende oscurare la verità storica; né tantomeno significa equiparazione delle vittime e dei carnefici.
La memoria condivisa è altro. È la consapevolezza che le tragedie degli uni e degli altri sono tragedie comuni, in quanto ledono valori condivisi.
L’appartenenza all’Unione europea implica infatti la condivisione di valori, nonché la comune responsabilità di rispettare e di far rispettare i diritti fondamentali di ogni persona e di ogni minoranza.
Una delle principali e più ispirate disposizioni dei Trattati stabilisce che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Questi valori, aggiunge la disposizione, «sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».
In questa nuova dimensione europea, le gravi violazioni di diritti fondamentali avvenute in passato – ora contro gli uni ora contro gli altri, sempre contro donne e uomini – ledono un’identità che è comune; per questa ragione, la consapevolezza dell’ingiustizia di quelle violazioni deve accomunare, e non dividere, i popoli riuniti nell’Unione europea.
La memoria condivisa porta a onorare tutte le vittime dei regimi che si sono macchiati di crimini contro l’umanità.
Il 13 luglio 2020 un altro gesto di straordinaria importanza ha sottolineato questo elemento, che caratterizza la nuova identità comune europea.
Ricevendo la massima onorificenza concessa, rispettivamente, da Italia e Slovenia, lo scrittore Boris Pahor ha pronunciato queste parole: «ringrazio e la offro ancora una volta a tutti i morti, che sono tanti, cominciando col fascismo e col nazismo e», aggiungo – disse lo scrittore – «anche la dittatura comunista». Con la consapevolezza di chi le tragedie del Novecento le ha vissute e le ha subite, concluse: «io ho avuto a che fare con tutti e tre».
La collaborazione tra Italia e Slovenia, coltivata dai nostri Onorati, lascia in eredità alle future generazioni questo insegnamento importante: le tragedie del Novecento, che hanno segnato profondamente Italiani e Sloveni sono diventate un patrimonio di memoria comune ai due popoli e a tutta l’Unione europea.
Questo nuovo corso delle relazioni tra Italia e Slovenia, avviato dai nostri Onorati, rappresenta un modello di collaborazione per il continente europeo.
Un modello che poggia su fondamenta solide.
Anzitutto, esso è un metodo che esalta la verità, come risultato da raggiungere attraverso una ricerca storica approfondita, libera e completa. Vent’anni fa Claudio Magris scriveva che «franche indagini storiche non timorose di offendere nessuno, possono e devono rivedere giudizi e versioni dei fatti, rettificare cifre di vittime o di carnefici», «con la serenità di chi cerca la verità storica». La verità storica è il presupposto del metodo di collaborazione coltivato dai nostri Onorati.
Inoltre, è un metodo, questo, che si apre alla fiducia reciproca e che richiede amicizia, impegno e coraggio da parte di coloro che rappresentano i popoli nelle istituzioni. L’esempio di Pahor e Mattarella insegna che il desiderio di un rapporto di comprensione umana e fraterna con il vicino è essenziale per chiudere stagioni dolorose e aprire nuove occasioni di collaborazione.
Infine, quello coltivato, con gesti concreti, dai nostri Onorati è un metodo che invita a un dialogo aperto e paziente, capace di includere progressivamente tutti i cittadini. L’azione di Pahor e Mattarella insegna a non giudicare in maniera affrettata, ma a coinvolgere quanti non colgono immediatamente l’utilità di un atteggiamento di cooperazione orientato al futuro benessere delle nuove generazioni. Il superamento di divisioni, che sono state profonde, richiede tempo e quel tempo può non essere uguale per tutti.
La cerimonia di oggi si tiene nell’Aula Magna dell’Università di Trieste. Non ci poteva essere sede più adeguata per onorare i nostri ospiti. Non soltanto perché si tratta del luogo in cui si riunisce, nei momenti più solenni, la Comunità delle donne e degli uomini dell’Ateneo Triestino; ma anche perché questa sede esprime al meglio i presupposti e gli obiettivi futuri del cammino intrapreso, e seguito, dai nostri Onorati.
È questa una sede che poggia su una prima pietra, posta nel 1938, in occasione di uno dei momenti più bui della Storia del continente europeo; quella pietra sta ancora lì a ricordare le tragedie, le sofferenze e le divisioni che la negazione dell’umanità, che la negazione dei caratteri fondamentali di libertà e di uguaglianza di ogni essere umano, può produrre.
È questa una sede che si affaccia su un piazzale dedicato all’Europa e che testimonia l’apertura, dopo i lutti del secolo scorso, di una nuova prospettiva di integrazione, che porta popoli fratelli a unirsi in una Comunità di diritto, di diritti e di valori; una prospettiva nuova, che trasforma i confini che dividono, in frontiere che uniscono; una prospettiva nuova, che valorizza le minoranze linguistiche come elementi portanti dell’amicizia tra Paesi vicini. L’Unione europea è la dimensione in cui i nostri Onorati hanno operato e che essi ci invitano a supportare.
È questa una sede – e per capirlo, basta levare lo sguardo, come ogni giorno fanno le donne e gli uomini dell’Ateneo Triestino – una sede, dicevo, che si proietta verso il mare Adriatico: il «mare dell’intimità» – com’è stato definito – il quale collega Paesi che condividono oggi la comune missione di sostenere tutti i Balcani occidentali nel loro sforzo di stabilizzazione, nella loro esigenza di sviluppo e nel loro obiettivo di piena integrazione nell’Unione europea. Italia, Slovenia e, assieme a loro, anche la Croazia, possono contribuire al raggiungimento di questo obiettivo complesso e possono farlo attuando il modello di collaborazione e di amicizia, seguito da Borut Pahor e Sergio Mattarella.
Concludo questa laudatio, ricordando anch’io che la cerimonia di oggi avviene in occasione del Centenario dell’Università degli Studi di Trieste.
Con questa cerimonia intendiamo onorare Borut Pahor e Sergio Mattarella, non soltanto conferendo loro la Laurea honoris causa in Giurisprudenza, ma anche assumendo e rinnovando davanti a loro un impegno solenne per il nuovo secolo di vita dell’Ateneo triestino: è l’impegno delle donne e degli uomini della nostra Comunità accademica a coltivare – secondo il modello di condivisione che i nostri Onorati, con il loro esempio, ci hanno indicato – una ricerca e una docenza orientate alla verità, al rispetto dei diritti fondamentali, alla collaborazione tra i popoli e alla costruzione dell’Europa Unita.
Motivazione conferimento della Laurea honoris causa in Giurisprudenza ai Presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor
Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno saputo coraggiosamente ripudiare la prospettiva angusta dell’egoismo nazionalistico, per perseguire invece una politica di riconciliazione, retta sulla creazione e sul consolidamento di spazi e di simboli dedicati alla memoria collettiva, quale fondamento di autentica pace tra i popoli. Due statisti che hanno interpretato l’amor di patria in una dimensione europea alta, così contribuendo a trasformare la frontiera adriatica, da territorio di aspro conflitto etnico e culturale, ad area di dialogo, di cooperazione e di amicizia, nella comune coscienza dei diritti umani e nella luce delle libertà democratiche.