Quando lo scrittore triestino Boris Pahor, che oggi compie 107 anni, ha ricevuto il 13 luglio di quest’anno la più alta onorificenza nazionale italiana, ha detto di averla ricevuta anche a nome di tutti coloro che non sono sopravvissuti al fascismo. A cominciare dal maestro del coro e compositore di Gorizia Lojze Bratuž (1902-1937), a cui dedicò il racconto Fiori per un lebbroso (pubblicato per la prima volta nella raccolta Kres v pristanu, Mladinska knjiga, 1959). Come ricorda lo scrittore, molte persone all’epoca non erano convinte dal paragone con il lebbroso, e l’editore francese ne fu entusiasta e descrisse la storia come una novella di proporzioni europee.
Doppiozero lo racconta così:
Per festeggiare i suoi 107 anni, lucidi e combattivi, il 26 agosto, Boris Pahor toglierà a pranzo la sua coppola beige, che gli tiene riparata la testa e da cui non si separa mai. Se ne spoglia poche volte in pubblico, in occasioni speciali, come quando, il 13 luglio scorso, ha ricevuto nella prefettura della sua Trieste dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella la Gran Croce al merito, e un’onorificenza omologa dal Capo dello Stato sloveno, Borut Pahor, nel rispetto della sua duplice identità di cittadino triestino di nazionalità slovena, come tiene ossessivamente a precisare. Per lui, infatti, l’identità nazionale è ed è stata questione di vita e di morte.
Un copricapo simile, ma verde, lo indossa anche d’inverno per difendersi dalla bora, con una sciarpa rossa, altro oggetto indispensabile allo scrittore anche d’estate. Quel pezzo di stoffa lisa, che nel gelo gli ripara la gola, serve anche nei mesi estivi per tenere al caldo le giunture: “Il corpo è l’unica cosa che abbiamo” ripete, memore della sua esperienza da prigioniero politico, che lo ha costretto per quasi due anni a peregrinare in cinque campi di concentramento: Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen.
Pahor porta sempre gli stessi indumenti da decenni. In particolare ha due soprabiti, un impermeabile bianco ghiaccio che funge da coprispalla in primavera e un cappotto grigio, meticolosamente rammendato, che usa d’inverno. Ci è affezionato, “fanno il loro lavoro”, dice lui. Come la cartella di pelle marrone con il manico sdrucito e le chiusure slentate, dove infila i documenti, gli scritti, gli appunti che gli servono per i suoi interventi in pubblico o per portare con sé libri suoi o di altri autori, che vuole regalare a qualche persona perché scavi nella storia. Si tratta sempre di pubblicazioni politiche, che mettono in luce la sofferenza del suo popolo, quello sloveno, alla cui causa e per la cui libertà di espressione ha dedicato la vita.
Pahor è nato nel 1913, quando a Trieste c’erano ancora gli Asburgo. La Prima guerra mondiale, che ha fatto di quel confine un aspro terreno di battaglia, la ricorda dal lettone della casa dove cercava di guarire dalla spagnola, che aveva contratto assieme alla madre e a due sorelle, Maria detta Mimica, ed Evelina. L’anno in cui colloca il primo ricordo della sua vita è dunque il 1918. Sente le cannonate, mentre la malattia si porta via Mimica, cui Pahor è affezionatissimo. Scavallato il conflitto, diventata Trieste italiana, l’avvenire non gli riserva tempi migliori. Il fascismo impedisce qualsiasi forma di espressione associativa e di pensiero agli sloveni, dai ricreatori, ai club sportivi, alla pubblicazione dei giornali in lingua, alla possibilità di mantenere aperte le banche. Pahor comincia subito a sentire la mannaia dell’oppressione politica. Il padre, essendo sloveno, perde il posto da fotografo in questura e deve ripiegare a fare l’ambulante in una piazza del centro triestino. La famiglia è in ginocchio: soldi ce ne sono pochi, pochissimi. In più Boris, che era un buono studente alla scuola slovena chiusa dal fascismo, se la cava male in quella italiana per quella sua profonda coerenza che gli impedisce di riconoscere una lingua estranea come lingua madre.